Fuori Appennino

L’ Anno che verrà

Diciamo subito che il 2024 non si presenta benissimo:  anno bisesto, anno funesto!

Una data che arriva da lontano: sono stati i Romani ad inserire nel loro calendario un giorno in più prima delle calende di marzo: si chiamava “bis sexto kalendas Martias” e scelsero il 24 febbraio perché era, per loro, l’ultimo giorno dell’ anno. Più tardi, quando si incominciò a contare i giorni del mese partendo dal primo e poi con numeri successivi, il giorno “bis sexto” di febbraio divenne il 29. L’ appellativo di anno sfortunato nasce anch’esso con i Romani: Febbraio era il mese dei Feralia, riti dedicati ai defunti, funesto quindi. Ma era anche il periodo dei Terminalia (dedicate a Termine, dio dei Confini) e le Equirie, gare che avevano la funzione di ricordare la conclusione di un ciclo cosmico: due simboli quindi di morte e di fine.

Nel 1582 Papa Gregorio XIII decise di far saltare i giorni dal 4 al 15 ottobre per riportare l’equinozio di primavera al 21 marzo ed  introdusse il calendario detto gregoriano, in vigore a tutt’oggi, in cui stabilì che gli anni secolari, eccetto quelli multipli di 400, non fossero più bisestili. Il 1600 fu bisestile, il 1700, il 1800, il 1900 no, il 2000 è stato bisestile. Gli anni bisestili sono perciò quelli divisibili per quattro, eccetto gli anni secolari che sono bisestili solo se divisibili per 400.

Ma non dappertutto l’anno bisestile è considerato sfortunato: in alcune culture, l’anno bisestile è considerato come favorevole per nuove imprese, cambiamenti di vita o di lavoro.

E poi ci sono tradizioni curiose legate all’ anno bisestile: in Irlanda, le donne possono dichiararsi agli uomini solo il 29 febbraio. In caso di rifiuto, alla donna verrà donato un bacio, una sterlina e un paio di guanti per addolcire la delusione.

In Francia, invece, solo il 29 febbraio esce in edicola “ La Bougie du Sapeur”: tutto il ricavato della vendita di questo giornale va in beneficienza.

Anche il Capodanno inteso come Primo gennaio ha origine Romane: fino al 46 a.C. il primo giorno dell’ anno era il Primo Marzo. Poi Giulio Cesare, con l’ introduzione del calendario giuliano, spostò la data di inizio anno al Primo Gennaio. Il primo giorno dell’ anno, per propiziare la fortuna, venivano offerte a Giano ( da cui deriva Gennaio) focacce fatte con cacio grattugiato, farina, uova e olio. I Romani invitavano gli amici a pranzo ed era usanza scambiarsi vasi di miele con datteri e fichi secchi “ perché l’anno che inizia sia dolce”. I fichi, detti strenae ‒ da cui il nostro strenna ‒ erano accompagnati da foglie d’alloro, come augurio di fortuna e di felicità.

Nei secoli successivi, nonostante  molti paesi avessero adottato il calendario giuliano, non in tutti si festeggiava il Capodanno il Primo Gennaio: fu papa Innocenzo XII nel 1691 a stabilire che la data d’inizio anno  fosse il Primo Gennaio. L’unico tentativo di spostare la data del Capodanno risale al periodo fascista, quando Mussolini spostò il Capodanno al 28 ottobre (anniversario della Marcia su Roma). Con la caduta della Repubblica Sociale Italiana, il Capodanno ritornò al Primo Gennaio.

 Per avere fortuna…cosa mangiare a Capodanno.

La tradizione popolare considera alcuni cibi dei veri e propri portafortuna se mangiati a Capodanno. Ovviamente qui la tradizione si mischia alla superstizione, ma (visto che male non fa) per avere un anno fortunato ecco cosa bisognerebbe mangiare.

Cibo fortunato per eccellenza sono le lenticchie, che si dice portino soldi perché la loro forma ricorda quella delle monete. Altri cibi che propiziano l’ arrivo del denaro sono il maiale e il marzapane ( manthàban in arabo indica la moneta con cui può essere acquistato). Una tradizione vuole che il 31 dicembre si rompa una melagrana davanti a casa: contando i semi che rotolano fuori, quelli saranno i soldi che arriveranno nell’ anno nuovo.

Per avere abbondanza non bisogna farsi mancare un piatto di riso e per avere prosperità bisogna mangiare 12 chicchi d’uva, allo scoccare della mezzanotte, uno per ogni rintocco esprimendo un desiderio. Da evitare i volatili perché, si dice, che con loro la fortuna vola via.

Per avere fortuna…chi incontrare (e chi è meglio evitare) la mattina del 1 gennaio

Questa è una tradizione popolare che si perde nella notte dei tempi, ma molto sentita fino alla metà del secolo scorso (almeno qui in Appennino).

Il primo giorno dell’ Anno, con nonno era usanza andare a portare gli auguri a tutti i vicini. Ricordo che il nonno, prima di uscire di casa, si guardava bene a destra e sinistra: guai ad incontrare come prima persona una donna!

Incontrare come prima persona nell’ anno nuovo una donna è sinonimo di catastrofe: la sfortuna ci accompagnerà 365 (o 366 in questo caso) giorni all’ anno. Peggio ancora se la donna ci porgeva gli auguri: l’anno nasce sotto i peggiori auspici. E proprio per evitare calamità varie, la nonna non usciva di casa, non rispondeva al telefono, non faceva gli auguri a nessuno.

Peggio che incontrare una donna, c’è solo incontrare il parroco o il becchino del paese: la morte visiterà la casa entro l’ anno.

Ottimo auspicio incontrare una persona anziana (basta che sia un uomo, direbbe il nonno): porta vita lunga e prosperità.

Il Primo Gennaio dovevo sempre avere in tasca un soldino (anche solo una moneta da 50 lire): il soldino attira la buona sorte e denaro in abbondanza nell’ anno nuovo. Ma per essere certi di avere dall’ anno Nuovo tutto ciò che si desidera, bisogna incontrare un gobbo. Sì, proprio la gobba è indice di fortuna, salute e soldi: attenzione, però, sempre che si tratti di un gobbo! Se si incontra una donna con la gobba, questa sarà una iattura!

#PiediStanchieCuoreFelice

Testo ed immagini Fabrizio Borgognoni

Dicembre 2023

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Nella Terra degli Elfi

Il mio primo incontro con gli elfi risale alla metà degli anni Ottanta (ormai del secolo scorso..) quando, un giorno di mercato a Pistoia, rimasi incuriosito da un banchetto che esponeva latte, verdura e frutti di bosco. Cercavo di avvicinarmi -avevo circa 10 anni- ma il nonno mi disse di allontanarmi da quel banchetto di elfi.

“Chi sono gli elfi?” provai a chiedere ma il nonno, sempre di poche parole, liquidò la questione con “Gente strana”. La sera tornai alla carica, questa volta con la nonna che (come tutte le donne) era molto più illuminata del nonno. Non era “gente strana”, erano solo persone che avevano un modo di vivere diverso dal nostro, non più giusto o più sbagliato, solo diverso.

Poi, dimenticai gli elfi, i loro vestiti colorati e il loro banchetto anche se ciclicamente ne sentivo parlare. Abitavano sull’ Appennino Pistoiese, nei pressi di Sambuca occupando terre e ruderi abbandonati che loro, con pazienza, scarsi mezzi e tanta buona volontà avevano salvato dal degrado e rimesso a posto.

L’anno scorso inizio a leggere un libro, Tempo da Elfi, che mi fa tornare in mente il banchetto, i “si dice”, e tante altre cose: così decido, è giunta l’ora di conoscere gli elfi!

In una bella giornata di sole mi incammino su per un sentiero, supportato dalla diceria della gente che “si dice” gli elfi abitano là, passato il casolare, attraversato il prato, superato il fiume…e poi arrivo davvero ad una casa in pietra dove incontro Lucio (nome di fantasia) che con un bel sorriso mi chiede se voglio dell’ acqua, vista la giornata calda. Mi invita a sedermi sotto un pergolato, da dove si gode una bella vista e una bella brezza.

Iniziamo a chiacchierare, prima delle solite cose, che caldo, si ma qui tira un po’ di brezza, che panorama che hai, che pace…insomma frasi tra sconosciuti che non lasciano nulla. Poi mi decido e chiedo: senti, ma mi racconti la vita da elfo?

Chissà quante volte gli hanno fatto questa domanda, chissà quante volte ha raccontato la sua storia a persone che passano di qui, ma lui mi sorride e mi racconta.

Racconta che la vita da elfo non è sempre facile, Lucio è arrivato qui tra i primi- la valle degli Elfi nasce nel 1980- e l’ integrazione (se si può chiamare così) con la popolazione non è stata facile. C’era sospetto, diffidenza, ma anche un misto di curiosità e forse morbosità per queste persone “strane”, che vivevano nei boschi. All’inizio si viveva in comunità numerose, adattando ruderi e facendole diventare abitazioni: ma questo non piaceva alla popolazione. Mi racconta delle prime volte che sono arrivati i carabinieri, che intimarono agli occupanti di andare via dal borgo abbandonato dove si erano stabiliti, dando addirittura il foglio di via. Non c’è rabbia nelle sue parole, a tratti sorride, a tratti diventa malinconico ricordando i modi con cui venivano sgombrati. Che poi loro, gli elfi, neanche capivano perché non potevano stare lì: in fondo, stavano recuperando vecchi ruderi, il cui proprietario sicuramente defunto non aveva lasciato eredi o, anche se avesse eredi, a chi poteva interessare un rudere con un tetto ormai sfondato e invaso dalla vegetazione, lontano dal paese, raggiungibile con una vecchia strada più adatta ai muli che alle automobili? Da quegli anni lontani, gli Elfi si sono espansi in tutta la montagna, hanno riadattato case abbandonate trasformandole da ruderi in case confortevoli. E’ una comunità grande e tra quelle montagne, negli anni, sono nati più di duecento bambini, duecento elfetti che hanno riempito di urla e risate valli che altrimenti sarebbero rimaste desolate.

La vita di comunità era una vita comunitaria nel senso più largo del termine: si viveva raccogliendo frutti ed erbe spontanee, coltivando ortaggi, cereali, castagne, olive e allevando alcuni capi di bestiame, il tutto esclusivamente per la sussistenza. I prodotti della terra e i raccolti venivano infatti ripartiti fra tutti i villaggi in base alle necessità. Quello che non si riusciva a produrre lo si comprava nella piccola bottega a valle grazie ad una cassa comune  per le spese spicciole di ogni villaggio ed una cassa individuale per soddisfare le esigenze dei singoli. Ognuno dà in base alla propria possibilità e coscienza e questo sistema funziona perché il principio ispiratore è la condivisione.  Si scendeva poco a valle, una volta la settimana. Mi racconta Lucio che lui arriva da una grande città, ma quella non era la vita che voleva. Non sopporta il rumore, la gente sempre di fretta, il non riuscire mai a parlare neanche con il tuo vicino di casa. Nella comunità non esisteva un solo televisore, le notizie arrivavano solo di quando in quando, e questa facilitava il parlare, il comunicare tra le persone. Le decisioni venivano prese insieme, durante le assemblee. Ci si sedeva in cerchio, e ognuno parlava quando il bastone della parola arrivava nelle sue mani. E’ un bastone che gira in senso circolare, non si può interrompere o intervenire mentre una persona sta parlando; anche le decisioni vengono prese tutte dalla comunità.

Mentre parlo con Lucio, mi rendo conto che gli elfi non sono hippy un po’ fuori moda (lo ammetto, ho pensato anche questo) ma un miscuglio di tante cose, con la possibilità per ognuno di esprimersi, liberamente e spontaneamente. Il denaro è la cosa che meno importa: ognuno non viene considerato in base a cosa porta, ma in base a ciò che è e che dimostra di essere.

E’ ora di andare ormai, e il mio amico elfo mi saluta raccontandomi una storia, che è diventata un po’ il suo paradigma:

L’uomo d’affari vide con fastidio che il pescatore, sdraiato accanto alla propria barca, fumava tranquillamente la pipa.

“Perché non stai pescando?” domandò l’uomo d’affari.

“Perché ho già pescato abbastanza pesce per tutto il giorno”

“Perché non ne peschi ancora?”

“E cosa ne farei?”

“Guadagneresti più soldi. Allora potresti avere un motore da attaccare alla barca per andare al largo e pescare più pesci. Così potresti avere più denaro per acquistare una rete di nylon, e avendo più pesca avresti più denaro. Presto avrai tanto denaro da poterti comprare due barche o addirittura una flotta. Allora potresti essere ricco come me”.

“E a quel punto cosa farei?”

“Potresti rilassarti e goderti la vita”

“ Cosa credi stia facendo ora?”

Non c’è niente di più vero.

 

#PiediStanchieCuoreFelice

Testo ed immagini Fabrizio Borgognoni

Novembre 2023

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Portofino, forse non sai che…

Settembre è sempre sinonimo, da qualche anno, di Liguria. Dopo un’estate passata su e giù dai crinali, su vette più o meno alte, anche una Guida dell’ Appennino ha voglia di.. mare!

E allora, ciclicamente, ripropongo una bella escursione che da Santa Margherita porta il gruppo all’ Abbazia di San Fruttuoso, passando per la perla glamour della Liguria: Portofino.

Arrivare a Portofino è sempre emozionante e molto scenografico: il percorso ci porta appena sopra la baia e, prima di scendere (doverosamente) in piazzetta, è bello guardare le persone, le barche, insomma il mondo da un po’ più in alto.

Le origini si perdono nella storia: c’è chi dice che risale ai fenici, chi ai greci, chi ai romani: quel che è certo è che è famosa fin dai tempi remoti per essere molto riparata dai venti e dal mare, quindi un porto ideale sempre molto ambito. Fu Henry Herbet, Conte di Carnavaron, a scoprire Portofino nel 1870, costruendo villa Altachiara e contribuendo a far diventare il piccolo borgo una meta internazionale molto famosa inizialmente in Inghilterra. A completare il quadro, ci sono le meraviglie naturalistiche, il borgo interdetto alle auto, il non essere un luogo di passaggio perché tagliato fuori dalla Via Aurelia, insomma un vero e proprio angolo riservato.

Questa volta, però, accanto alle solite nozioni di storia, vorrei raccontare Portofino in un’altra maniera: non solo storia, ma anche qualche chicca che possa incuriosire. E allora, mi sono preso un po’ di tempo per spulciare tra le pagine dei libri che ho a casa e ci sono riuscito!

Ecco quindi le mie 7 curiosità 7, perché forse non sai che….

  1. Portofino è stata riprodotta in Florida, negli studi dell’ Universal per cercare di dare agli studios un tocco di “dolce vita italiana” con tanto di ristoranti, negozi a tema e la mitica Vespa: quella vera, firmata Dolce&Gabbana (off course), fa bella mostra di sé in Piazzetta a Portofino.
  2. Portofino è stata ed è tuttora luogo perfetto per le riprese dei film. Voglio citare quello MENO FAMOSO: “Al di là delle nuvole” del 1995 diretto dal maestro Antonioni con la collaborazione di Wim Wenders (quindi non proprio due sconosciuti). Cast stellare ( John Malkovic, Fanny Ardant e un Marcello Mastroianni spettacolare) ma dimenticato perché è un film drammatico/sentimentale/erotico anche se non c’è nulla di volgare.
  3. Portofino è famosissima in Russia ed in America. In Russia grazie alla canzone russa “PORTOFINO” pubblicata nel 2009 con successo enorme: è stata il miglior spot per Portofino in Russia, facendola conoscere ad un pubblico vastissimo tanto che negli anni successivi c’è stato un vero e proprio boom dei turisti russi. In America viene conosciuta ad inizio primavera/estate 2003 quando in Piazzetta viene girato uno degli episodi più importanti di quella che è LA soap opera per eccellenza: signori, in Piazzetta arriva Beautiful con la competizione di sfilate tra le due case di moda.
  4. Una delle serie tv più famose in Germania, l’ispettore Derrick, ha un episodio girato a Portofino. Nella terza serie, la prima trasmessa in Italia, c’è un episodio chiamato “L’uomo di Portofino” ed interpretato da Amedeo Nazzari, attore divenuto famoso al grande pubblico nel secondo dopoguerra.
  5. E poi una curiosità culinaria, ovvero il sugo alla Portofino. Niente altro che pesto mischiato al pomodoro: si racconta che una sera, in un ristorante si presenta una numerosa tavolata di clienti, ma il pesto non basta per tutti. Allora, per allungare il sugo, si provò ad aggiungere del pomodoro, una sorta di “Io speriamo che me la cavo”. La ricetta piacque così tanto che ora è conosciuta un po’ dappertutto.
  6. Portofino è il comune più piccolo della Città Metropolitana di Genova con soli 2,53 kmq e non ha frazioni.
  7. Ma non c’è solo la glamour Portofino, c’è anche Portofino Vetta. Portofino Vetta fa parte del Comune di Camogli e non ha nulla in comune con Portofino: non ci sono boutique, bar, gelaterie, ristoranti: ci sono solo due grandi parcheggi per auto, una fontanella per bere, i ripetitori della RAI e un albergo in triste stato di abbandono. Però ha una vista incredibile su entrambi i golfi, Tigullio e Paradiso, una vista libera a 360 gradi.

“ I found my love in Portofino perchè nei sogni credo ancor…” (Fred Buscaglione-1958)

#PiediStanchieCuoreFelice

Testo ed immagini Fabrizio Borgognoni

Settembre 2023

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L’estate senza sole

I mesi di maggio e giugno 2022 sono stati senz’altro mesi con un caldo anomalo, caldissimo e senza un filo d’aria, senza pioggia.

Forse l’unico giorno senza sole è stato quando ho scattato le foto a corredo di questo racconto, più che estate sembrava autunno! E allora, mi sono ricordato di quanto aveva raccontato un mio professore e che mi aveva affascinato: l’estate senza sole.

Sembra impossibile, ma è successo davvero! Nel 1816, l’anno senza estate o anno della povertà o (con umorismo inglese) Eighteen hundred and froze to death.Ma cosa era successo? Il clima nel 1816 era stato alquanto bizzarro.  L’inverno era stato lungo e piovoso. Già dall’ inizio di giugno si capiva che qualcosa non stava andando nel verso giusto: temperature fredde come se iniziasse l’inverno, il cielo era quasi sempre nuvoloso; la carenza di sole fu così rilevante che gli agricoltori subirono ingenti perdite in termini di raccolto e si ebbe una vera e propria penuria di cibo. La mancanza di pane fece esplodere la rabbia della gente, esasperata dalla fame e dalla situazione lasciata dalle Guerre napoleoniche; per mancanza di foraggio si macellarono in gran quantità maiali ma, spariti quelli, si cominciò a mangiare di tutto, dal gatto al muschio.

Il Boston Independent Chronicle del 17 giugno 1816 così scrive: “ Il 5 giugno c’è stata una mattinata calda, seguita da forti piogge nel pomeriggio, accompagnate da tuoni e lampi, con venti freddi da nord-est. Il 6,7 e 8 giugno i fuochi nei camini delle nostre case erano molto gradevoli”.

Quale poteva essere la causa? Solo dopo un secolo, gli esperti capirono cosa ha scatenato quel particolare clima: il 10 e 11 aprile 1815 il vulcano Tambora, in Indonesia, diede luogo ad una delle più grandi eruzioni con l’immissione nell’atmosfera di un’enorme quantità di polveri. Queste si diffusero per tutto il globo e si comportarono come un filtro nei confronti dei raggi solari. Oggi sappiamo che quella eruzione in realtà fu una vera e propria esplosione che cancellò 1300 metri di montagna e catapultò circa due milioni di tonnellate di detriti e particelle di zolfo negli strati più alti dell’atmosfera. Migliaia di persone morirono a causa degli effetti diretti dell’ eruzione, che sprigionò nubi e gas velenosi, onde di tsunami. Nei dintorni del vulcano morì tutta la vegetazione e il terreno rimase avvelenato per anni. Quasi tutto l’ emisfero settentrionale, in un periodo climatico già fresco, registrò un ulteriore crollo delle temperature, mentre fame e carestie si diffusero nel mondo.

A quei tempi il telegrafo era ancora in fase di sviluppo, quindi la notizia dell’ eruzione viaggiò molto lentamente e migliaia di persone non capirono cosa stava succedendo: in Galles i raccolti di patate, del grano e dell’avena erano compromessi. Stessa sorte in  Germania, dove i prezzi alimentari salirono bruscamente. In Gran Bretagna e Francia vi furono rivolte per il cibo e i magazzini di grano vennero saccheggiati. Le nubi di solfato rallentarono probabilmente lo sviluppo dei monsoni, determinando gravi siccità in tutto il subcontinente asiatico, devastato poi da violente inondazioni.

Ma se è vero che da un momento di crisi possono nascere grandi invenzioni, così fu anche in quell’ anno.La mancanza di foraggio ispirò Karl Drais a cercare nuovi mezzi di trasporto senza cavalli, portando all’invenzione della draisina, detta anche Dandy horse o velocipede, insomma il prototipo della moderna bicicletta ( e poi motocicletta) dando un significativo impulso ai successivi mezzi di trasporto personale a motore.E le “incessanti nevicate” costrinsero Mary Shelley a passare al chiuso le vacanze estive: nacque così una storia spaventosa, Frankenstein.E i livelli di cenere nell’atmosfera resero spettacolari i tramonti, immortalati nei dipinti di Turner.

 

Henry and Elizabeth Stommel:  Volcano Weather: The Story of 1816, the Year without a Summer-Ed.ni Newport 1983

Brian Fagan:  La rivoluzione del clima-Come le variazioni climatiche hanno influenzato la storia-Ed.ni Sperling&Kupfer 2001

Mary Shelley:  Frankenstein

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La “mia” Gorgona

Devo confessarlo, sono emozionato. Oggi accompagno sull’Isola di Gorgona un gruppo di escursionisti, a cui voglio far conoscere l’Isola, anzi la “mia” Isola.E’ successo per caso: stavo frequentando il corso per diventare Guida Ambientale Escursionistica ed uno dei nostri docenti ci ha proposto Gorgona. Gorgona?? Ma l’ Isola carcere? Non sapevo cosa aspettarmi da quella giornata, ma appena sbarcato dalla motonave mi è sembrato tutto chiarissimo: ero già affascinato dall’ Isola.

A fine giornata ero completamente innamorato dell’ Isola e mi sono ripromesso che ci avrei portato, conquistato il patentino da Guida, altre persone.Parto presto da casa, un po’ perchè sono comunque a 150 km da Livorno, e un po’ perchè ho quell’infantile agitazione delle cose nuove.

Arrivo a Livorno, la giornata non è limpidissima ma calda e sbrigate le formalità per il mio gruppo, saliamo sulla motonave. La traversata è tranquilla, chiacchiero con Nicola, il nostro “comandante”, con le persone del gruppo e con le altre guide: oggi ci sono Guide che conosco, colleghi che hanno preso il patentino prima di me e che portano persone a conoscere l’Isola carcere.

Dicono che il fascino di quest’isola sia dato dal fatto che l’ingresso è contingentato, 100 persone al giorno possono avere l’autorizzazione a sbarcare, ma io non credo che il fascino sia dato da questo, o dal fatto che ci puoi andare solo con la Guida o che devi ottenere tutti i permessi (per te e per le persone che accompagni) dalla Polizia Penitenziaria. Il fascino è dato dai colori. Quando arrivi, da lontano, Gorgona sembra nera e mano a mano che ti avvicini invece scopri che è verde, ma una tonalità di verde indefinibile, con tutte le sfumature e la prima impressione che hai è che un verde così non lo hai mai visto in nessun altro posto. Poi si attracca, e lì li vedi tutti i colori: il marrone della Torre, le casette colorate che ricordano sì quelle dei pescatori in Liguria, ma non sono le stessa cosa. Il grigio dei ciottoli della strada, il bianco degli ombrelloni fuori dallo spaccio di Terrazza Belvedere, e poi il blu. Il blu del cielo, del mare, che in certi scorci non sai dove finisce il cielo e dove inizia l’ acqua. E anche qui, ti sembra che un blu così non lo hai mai visto in nessun altro luogo. Ma forse non sono solo i colori a regalare fascino a quest’isola. Forse è la storia. Racconto la storia di questo pezzo di terra, piccolo nonostante che dalla motonave sembri grandissimo. Racconto dei pirati, dei frati, di Toscani e Liguri, di chi qui ci ha vissuto, di chi ci è passato e non si è fermato, o di chi qui ha provato a fermarsi ma non sempre ci è riuscito. O forse il fascino di Gorgona è dato da quel strano binomio: isola carcere. Voglio raccontare del Direttore del carcere, il Dottor Mazzerbo, che questa mattina abbiamo salutato appena sbarcati, della sua idea di carcere non come punizione ma come idea di reinserimento delle persone, attraverso il lavoro. Lo spaccio, l’azienda agricola, gli animali e le vigne: farò passare il mio gruppo in ciascuno di questi posti e, lo confesso, spero anche di trovare qualche ragazzo che sta lavorando, per scambiare due parole. Questa è stata una cosa che ho notato fin da subito nelle brevi chiacchierate con il Direttore: non li chiama mai “detenuti”, “carcerati” ma semplicementi “RAGAZZI”. Questo è il primo regalo che fa Gorgona: smettere, almeno per qualche ora, di etichettare le persone. O forse il fascino di Gorgona è nell’odore. Sì perchè, camminando, senti tanti profumi. A Terrazza Belvedere, i fiori curatissimi emanano un profumo intenso. Sulla strada sterrata, che si percorre per arrivare al Cimitero, ritrovo sempre lo stesso profumo, che non so identificare ma che mi piace e se non ci fosse un gruppo da accompagnare, mi siederei per terra e starei ore, così solo per annusare un profumo che non so riconoscere né so da dove arriva. O forse il fascino di Gorgona è racchiuso nel silenzio che ti regala, nonostante oggi sia sbarcato il numero massimo di persone consentito. Mentre cammini, c’è un silenzio irreale, e mi chiedo come possa essere quando il mare fa i capricci, quando non arrivano i gruppi a scoprire l’Isola, quando piove o tira vento. Forse, penso, riuscirei a sentire il rumore delle gocce di pioggia su ogni foglia. La mia giornata a Gorgona sta per finire: bisogna tornare verso la motonave che ci riporterà a Livorno, lasciare la “mia” Isola, sperando di essere riuscito a trasmettere anche solo la minima parte di quello che avrei voluto; il gruppo, però, è entusiasta, contento di aver conosciuto un posto speciale che, ne sono certo, resterà a lungo negli occhi e nel cuore.

Testo e foto Fabrizio Borgognoni

Per scoprire Gorgona ed il modello di carcere non violento (scritto dall’odierno Direttore del Penitenziario): Ne vale la pena di Carlo Mazzerbo-edni Nutrimenti.

Volti e storie di Gorgona,raccontati da chi ama in modo viscerale l’Isola: Gorgona, l’isola dei tre cuori di Giorgio Galletta-Edni Bandecchi&Vivaldi

Storia,botanica ed ambiente terrestre e marino: L’Isola di Gorgona di Angiolo Naldi-Edni Media Print

 

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